MoneyRiskAnalysis – Borsadocchiaperti

S'ode un grido nella vallata. Rabbrividiscono le fronde degli alberi, suonate le campane, il falco è di nuovo a caccia!

Leggendo fra i vari blog si può trovare di tutto, anche chi incute paura sul fatto che i vostri soldi li dovete investire in asset di valore, come commodities e azioni. Visto che si fa, addirittura, l’esempio che negli ultimi due anni un capitale in monetario avrebbe reso -9% in termini reali, mi sono sentito in dovere di pensare a dove eravamo due anni fa e quanto costava un semplice Ctz con scadenza dicembre 2010. Ebbene, scopro che in due anni il mio capitale nel Ctz avrebbe fruttato quasi il 5% al netto dell’inflazione, ossia l’esatto opposto di quanto sostenuto dal blog. Se invece avessi investito in asset di valore, il mio capitale da 100 si troverebbe adesso tra 80 e 75, oltre a dover togliere la perdita di potere di acquisto. Per calcolare questo dato mi è bastato prendere un portafoglio investito al 50% nella borsa americana e al 50% nel CRB in ottobre 2007 in euro. Ciò mi fa pensare, che alla luce del rimbalzo visto in questi mesi (non finirò mai di dire che i più violenti non sono stati agosto e settembre), sulla rete si sia raggiunto un livello intellettuale altamente pericoloso, che abbia spinto anche gli investitori più tranquilli e ignari, ad avventurarsi in un campo non privo di insidie. La situazione in cui grava l’economia Mondiale è molto complicata: si và da chi paventa una deflazione ad un’iperfinflazione nei prossimi anni. A mio parere la verità sta nel mezzo e cioè nelle forti probabilità di una stagflazione che ci accompagnerà per i prossimi anni. Pertanto da un lato potrebbe essere giusto investire in asset di valore ma in modo altamente selettivo, mentre dall’altro sarà necessario guardare con diffidenza molte società il cui business sembra camminnare da tempo con le stampelle . Il termine stagflazione a mio pare si concilia molto con la situazione in cui stiamo vivendo oggi. Staglfazione significa avere inflazione senza crescita, il che non sarebbe proprio l’ideale per l’investimento azionario. Molti ancora fanno paragoni con la crisi del ’29, del 1870 o dei primi del ‘900, sposando senza mezzi termini la teoria Keynesiana, che in epoche lontane ha dato buoni frutti, visto che non esisteva un problema di debito pubblico, in rapporto al Pil come adesso. Si trascurano invece le dinamiche di una forte crisi che ci ha colpito molto più recentemente e cioè quella degli anni ’70, nella quale inflazione elevata e crescita negativa si sposarono perfettamente. Gradirei leggeste con attenzione quanto riporta Wikipedia sul significato di stagflazione.
In economia, per stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed inflazione) si intende indicare la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti – su un determinato mercato – sia un aumento generale dei prezzi (inflazione) che una mancanza di crescita dell’economia in termini reali (stagnazione economica).
La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli
anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali; precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato.
Milton Friedman, Nobel in Economia nel 1976, era stato tra i pochi a discostarsi dalle visioni keynesiane e roosveltiane e a prevedere, nei suoi due libri Capitalism and Freedom e Storia Monetaria degli Stati Uniti, l’avvento della stagflazione.
Nella visione keynesiana, la
disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile con prezzi in aumento, ma con prezzi in diminuzione, per effetto della recessione.
La stagflazione fu così inizialmente contrastata, conformemente alla teoria keynesiana, con l’applicazione di politiche economiche
inefficienti ed a volte persino destabilizzanti, improntate ad una forte espansione: gli effetti di queste scelte aggravarono, però, ulteriormente la tendenza, già presente nei sistemi economici, al rialzo dei prezzi dei beni per di più senza drastici cali della disoccupazione, come auspicato invece dai governi. Il fenomeno fu principalmente spiegato col prevalere di comportamenti di monopolio sia nel mercato del lavoro (per la rigidità dei salari), che in quello dei prodotti per la presenza di cartelli (in special modo nei mercati delle materie prime).
Focalizzate quanto scritto in rosso perchè non ci trovo la minima differenza con la situazione attuale.
Dal momento che la teoria keynesiana non era in grado di spiegare correttamente questo nuovo fenomeno molti
economisti superarono l’idea keynesiana, che fino ad allora era riuscita a spiegare e giustificare validamente i fenomeni presenti nelle economie di mercato, ritornando alle convinzioni della teoria economica classica.
Lotta alla stagflazione

Una proficua lotta alla stagflazione è particolarmente complessa, in quanto per diminuire la spinta inflazionistica le
Banche Centrali dovrebbero ridurre la massa di moneta circolante e, indirettamente, contenere la domanda di beni e servizi; ma una diminuzione della domanda causata da scarsità della massa monetaria non favorisce la crescita economica e quindi il rientro della disoccupazione. Rispetto agli anni ’70, oggi il fenomeno della stagflazione viene mitigato dalla mancata rincorsa prezzi/salari, ovvero ad un aumento dei prezzi, soprattutto petrolio e materie prime, non corrisponde automaticamente un adeguamento inflattivo delle richieste salariali che vengono condizionate dalla possibilità per le imprese di esportare sempre di più la produzione in paesi che hanno un costo del lavoro nettamente inferiore.
Fino ad oggi il giochino è stato questo, ma credo stia per finire, visti i già elevati livelli di disoccupazione e le forme di protezionismo dirette e indirette.
Questa tendenza a sua volta riduce la possibilità di contrattare eventuali aumenti salariali nei paesi più sviluppati riportando in equilibrio il mercato del lavoro e quindi senza produrre un ulteriore peggioramento del tasso d’inflazione.
Ci sono ancora margini per fare cio? Se sì, andremo a lavorare tutti in India e Cina, ma forse è troppo tardi e quindi ci dovremo accontentare del Vietnam o della Cambogia.
A questo punto una politica monetaria restrittiva risulta inefficace e quindi occorre agire piuttosto su quella fiscale, con una sensibile riduzione della spesa corrente ed una corrispondente riduzione della pressione fiscale, unica strumento efficace per stimolare i consumi e perciò la domanda aggregata di beni e servizi.
Ci sono i margini per fare questo? Possiamo agire ancora sulla spesa corrente? Forse se mandiamo in pensione la gente a 90 anni. Ricordo che il grosso dei debiti statali recenti deriva dagli interventi in soccorso delle banche.
La conseguente crescita economica rende quindi possibile una ripresa dell’occupazione, proprio in conseguenza della sopra citata moderazione salariale. Alle Banche centrali spetta quindi il compito di fine tuning, ovvero di equilibrare con la maggiore precisione possibile, la liquidità immessa nel sistema, in particolare attraverso una migliore allocazione della massa monetaria allargata che accompagni la ripresa dell’economia.
Tutto facile se non fosse che la massa monetaria messa in circolazione è frutto del problema legato alle banche. Quale possibilità di controllo della massa monetaria? Le autorità monetarie sono ormai ostaggio del complesso meccanismo del sistema del credito, il quale si ostina a non accettarne il proprio fallimento.

Dopo aver analizzato (spero in modo esauriente) la possibilità di uno scenario di stagflazione passiamo ad un’analisi sintetica dei mercati, con i quali si possono già dimostrare pericolosi segnali in merito alle tensioni sulle materie prime, nonostante il basso livello di produttività.

PETROLIO: nella precedente settimana il Wti ha superato di slancio la resistenza posta a 75 dollari. Fino ad oggi i target sono stati rispettati con precisione millimetrica. Le ragioni di tanta forza sono da ricercare a mio parere nel livello di produttività più elevato (su questo non ci sono dubbi) rispetto a tre e sei mesi fa e dagli acquisti dei paesi emergenti in particolare di Cina e India. Non dobbiamo tuttavia trascurare il fatto che sul petrolio, secondo molti studiosi, ci stiamo avvicinando al famoso picco massimo e che la qualità estratta produce sempre meno distillati di qualità. Per avere una conferma di questo basterebbe leggere la forza del prezzo della benzina rispetto al petrolio. Da un punto di vista puramente tecnico esistono numerose possibilità di raggiungere i 100 dollari e per questo sconsiglio vivamente di avventurarsi in operazioni speculative volte ad un ridimensionamento del prezzo.

ORO: come possiamo vedere dal grafico anche questo metallo ha superato resistenza molto importanti. Enormi possibilità di vedere il target di 1140.

SP500: e le borse? Questo è il grafico dell’indice americano. Il rialzo è ormai giunto al 50% del ribasso subito negli ultimi due anni. Non credo che ci siano molto margini di crescita. Target 1120? Preferisco non scommettere su margini così risicati.

Nella speranza che le ore passati davanti al computer possano aver aiutato il lettore a comprendere al meglio la situazione, chiedo qui il vostro impegno nella diffusione di questo blog.

Grazie in anticipo

Categories: Scenari

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